Nell’ultimo periodo sono ossessionato da un pensiero: la critica gastronomica osa poco, parla sempre e solo degli stessi chef e degli stessi ristoranti, alla costante ricerca di consensi. La paura di azzardare, magari elogiando un nome nuovo che potrebbe di lì a poco non mantenere le promesse, sembra possa ledere più alla reputazione del giornalista che non alla carriera del cuoco. Articoli su moderni bistrot e concept innovativi ideati da nomi di grido rappresentano la comfort zone del critico, anche se poi nella maggior parte dei casi tali progetti si rivelano dei clamorosi flop dal punto di vista economico.
Contemporaneamente, in parallelo, un esercito di talentuosi chef ed un gran numero di locali la cui unica pecca è quella di non essere arredati secondo le linee guida del design del nord Europa, macinano ogni giorno coperti su coperti, raggiungendo (almeno loro) l’ambito traguardo rappresentato dal break even. In altri casi la colpa è rappresentata dalla geolocalizzazione, l’avere un locale tra i monti o alla fine di una tortuosa strada. Perché, questo a parziale discolpa dell’esercito di ‘scrittori di cibo’, il momento economico dell’editoria di settore non consente più di spesare con continuità le “trasferte” per scoprire le cucine situate nei territori più remoti.
Questo insieme di elementi ha creato uno scenario in cui molto spesso sono la fortuna o il caso a cambiare le sorti di una carriera (esemplificativo a tal riguardo il caso di Ana Ros e la puntata a lei dedicata della serie Chef’s Table, che l’ha resa famosa a livello mondiale). Anche la mia ultima esperienza gastronomica è stata piuttosto fortuita: sapendo di dover partecipare al Vinitaly ho scritto ad una persona per chiedere consigli, e grazie a lei ho scoperto il ristorante TreQuarti e la cucina di Alberto Basso.
Alla scoperta di TreQuarti
Non ero mai stato a Vicenza. Non avevo mai visitato i Colli Berici. Tutto si è incastrato nel modo giusto una sera di tre settimane fa, e dopo un’ora di viaggio mi sono ritrovato in un luogo elegante, curato, originale, nel quale un giovane ma già esperto (soprattutto dal punto di vista imprenditoriale) chef ha ideato una proposta gastronomica che accontenta al tempo stesso gli abitanti di zona e gli appassionati di alta cucina. Il segreto del suo successo, di cui troppo poco parla la stampa di settore, risiede nella formula “Caresse e Man Roverse”.
Una sala rossa con grandi tavoli circolari ed una sala bianca dedicata ai tavoli per due persone. Un maitre e responsabile di sala, Christian Danese, che ha dato vita a una carta dei vini di rara qualità, con circa 400 etichette selezionate personalmente, con un grande amore a fare da filo conduttore, quello per le bollicine di montagna Trentodoc. E poi c’è la cucina. Legata indissolubilmente al territorio ma in grado di aggiornare e ripensare le tradizioni gastronomiche che lo contraddistinguono. Una cucina basata naturalmente sulle materie prime e proposta con creatività, tecnica ma anche furbizia. Perché Alberto Basso si è reso conto che per trasformare i residenti nello “zoccolo duro” della sua clientela, doveva necessariamente studiare una soluzione che potesse essere ideale per il loro palato e le loro abitudini.
Le “Caresse” e le “Man Roverse”
La soluzione ha un nome: “Caresse e Man Roverse”. Che significa una serie di piatti che accarezzano il palato, contraddistinti da sapori noti, confortevoli e confortanti, che non spaventano chi è poco avvezzo ad una cucina fatta anche di esperimenti. Ed una serie di piatti che danno dei colpi di “manrovescio” al palato, grazie ad abbinamenti azzardati, forti, intriganti talvolta spiazzanti ma sempre ben studiati, con un importante e ben definito equilibrio di fondo.
L’esperienza gastronomica
La cena è un continuo saliscendi, una alternanza di sapori noti e sorprese, un mix di assaggi che esaltano il palato ma non gli concedono tregua, tra un momento di relax grazie allo “Spaghettone km. 5 semi-integrale, alici cantabriche e limone candito” ed un vortice di sensazioni con il “Riso Acquerello al fegato grasso, vermouth e perle di yuzu”, roba da strizzare gli occhi per l’acidità ed un secondo dopo rilassare i muscoli del viso per la carezza del fegato grasso. E tutta la sera prosegue su questo filone, ad esempio passando dagli “Gnocchi esotici ripieni di alici cantabriche, cassis e crescioni” dalla consistenza quasi eterea al “Cuore d’asino, cavoletti di Bruxelles e mela cotogna”, che parte come manrovescio per divenire quasi un pugno che cerca di demolire le mie certezze gastronomiche verso nuovi orizzonti del sapore che miscelano consistenze ed intensità.
La straordinaria carta dei dessert
E quando pensi che la giostra stia per fermarsi, dal megafono una voce comunica che la velocità sta per aumentare grazie all’arrivo in tavola dei dessert. A leggerne gli ingredienti ti verrebbe voglia di collocarli sotto la voce antipasti o secondi, ed invece sono lì a rappresentare il fulcro della filosofia culinaria di Alberto Basso. “Polenta e baccalà 2.0” è un nonsense gastronomico, ma solo sulla carta perché una volta giunto al palato un sorriso ti si stampa sul volto. Con “Sacro e profano”, ovvero meringa italiana, caramello al pepe lungo, crema di peperoni al tonno, la perfidia dello chef raggiunge il suo apice.
Ti tornano in mente i manuali sulla pasticceria salata di Luca Montersino, le ricette sulle mousse innovative, i giochi di consistenza con ingredienti inediti. Ti sembra di mangiare un classico dessert ma in sottofondo sotto il rumore assordante del tonno e dei peperoni, quasi una magia. Il piatto di chiusura, “Acetosella frozen”, mi riporta alla mente la mano tesa di mio padre quando la giostra si fermava, la certezza che le scariche di adrenalina ti avrebbero concesso un meritato riposo. Il corpo si rilassa. Ma il tuo palato, e la tua mente, non dimenticheranno facilmente quanto accaduto.