Essere sostenibile, oggi, è un po’ come “fare comunicazione”. Può significare tutto, ma anche niente. Questo perché quando utilizziamo il termine Sostenibilità parliamo di un argomento davvero molto ampio e quando leggiamo il termine “sostenibile”, che ormai è ovunque, non sempre viene sottintesa la sua molteplice natura. Così riusciamo a trasformare un termine in un trend di mercato.
Siamo tutti sostenibili o no?
Sostenibilità, tutti la cercano, tutti la vogliono, tutti declamano di esserlo o di doverlo e poterlo essere. Così dalla scala di colori utilizzata nei packaging agli slogan, la sostenibilità e le sue declinazioni diventano un fattore etico, un valore di mercato e quindi una leva di marketing. Ancor prima di essere una consapevolezza compiuta nel suo intero. Possiamo dire che sia un male? Forse no, perché essere davvero un crociato della green revolution e della green economy, significa difendere non solo il pianeta, ma il consumo del prossimo, il benessere del personale e l’equilibrio economico della propria azienda. Una responsabilità che ha un costo d’investimento elevato e che significa inevitabilmente diventare un prezzo molto alto che il consumatore finale deve essere disposto a pagare.
Un esempio?
Da mesi si discute su ogni mezzo d’informazione dell’aumento che riguarda il nostro caro e amato Espresso. Il caffè. Prezzi che in Italia si aggirano tra 1 Euro e 20 e 1 Euro e 50 centesimi, fino a toccare picchi di 1 Euro e 80 Centesimi ed è subito indignazione popolare. Tra l’altro appoggiata secondo logiche di consenso da organismi di tutela al consumatore come il Codacons (qui potete leggere un bell’articolo di redazione sul Gambero Rosso in merito). Aumenti in parte scaricati sulla Pandemia globale, ma che di fatto sono legati profondamente ai costi di una filiera più pulita e sostenibile. Un processo talmente articolato e globalizzato, quello del chicco di caffè, che dalla coltivazione della pianta alla tostatura, passando per i trasporti trans-oceanici, deve prevedere il rispetto dei lavoratori e dei terreni di origine, così come la qualità della coltivazione e della lavorazione del seme a preservarne il più possibile le specificità organolettiche. Poi ci sono i processi di tostatura, confezionamento, distribuzione e comunicazione, che arrivano a un prodotto finale che deve essere compostabile. Il consumatore è attento al ciclo di sostenibilità del caffè, così come è attento alla qualità di quell’Espresso che deve poter prendere informalmente tutte le volte che vuole, al bar e magari mono varietale, ma quanto è disposto a pagare quel caffè? A quanto pare poco, anzi forse troppo poco.
Nella ristorazione
Quello del caffè è solo un esempio attuale di forte impatto popolare, ma le casistiche sono infinite e la ristorazione non ne è esclusa. Perché tutti vogliamo andare a cena in un posto bello, con i fiori freschi e le piante vere ben tenute, con un arredamento di stile e le ceramiche ricercate. Perché tutti vogliamo essere serviti da un personale di sala formato e consigliati da un sommelier competente che abbia una buona carta dei vini. Perché tutti vogliamo un menu variegato e creativo, con materie prime fresche e sicuramente ottime che escono elaborate da una cucina che ne rispetti la filiera e l’origine. Perché tutti siamo contrari agli sprechi e vogliamo che lo chef sia bravo. Poi però quanto siamo disposti a pagare tutto questo? Perché spesso il conto giusto è caro o percepito tale.
Leggi l’editoriale dedicato alla pasticceria nella ristorazione
La sostenibilità è un principio di vita basato sul rispetto. Il rispetto per le materie, per il lavoro, per le persone, per l’ambiente e non per ultimo, per l’economia necessaria a permettergli di essere realmente possibile. La riflessione quindi va fatta sull’approccio da consumatori a una sostenibilità consapevole. Se da una parte non dobbiamo cadere negli slogan ingannevoli, tipo “Galline allevate a terra” (che non significa all’aperto e nemmeno che siano esenti dall’essere in batteria in un ciclo di vita breve e di accrescimento rapido), dall’altra dobbiamo essere disposti a preferire la qualità pagandone il giusto prezzo. Forse a discapito di un consumismo quantitativo ereditato dal boom economico dell’industrializzazione.
Consumiamo meno, scegliamo meglio, mangiamo sano e critichiamo il giusto. Perché ci sta anche la critica, come sempre soprattutto nella ristorazione, uno strumento che però va tarato sull’esecuzione tecnica e di stile, in un necessario rapporto qualità prezzo. Se una corretta filiera ristorativa costa, dobbiamo essere consapevoli che va pagata. Anche se poi non ci piace, anzi, forse solo in quel caso saremmo veramente liberi di poterlo esprimere con coscienza e contezza. Ma questo, soprattutto nell’editoria gastronomica, è tutta un’altra storia…