Che poi, vista la fine del triatleta Jaroslav Bobrowski – cacciato da un ristorante sushi all you can eat per aver mangiato troppo – non puoi neanche più stare lì sventolare la bandiera del «però qui mi finisco tutto il locale» perché capace che poi ti mettono alla porta. A dirla tutta poi non è stato nemmeno l’unico. È accaduto anche, per esempio, alla famigliona in Florida (erano in sette) che ha mangiato un numero imprecisato di chele di granchio. Niente più scuse, vendica anche tu il povero Bobrowski: sushi no stop banned.
Però poi si pone il problema. Dove mangiare un gran sushi alla carta?
Se sei di Roma è molto facile: Ristorante Rokko.
È meglio chiarirlo subito. Rokko, con due K. E no, non si tratta nemmeno del gestore che viene dal sud e apre il ristorante esotico. Rokko, come il monte che sovrasta Kobe, dove è nato il padre di Hiroko, l’elegante proprietaria che gestisce il locale insieme al marito e allo chef Takehisa Haraguchi. Molti anni fa stava in quella salitella dietro piazza Barberini, oggi a passeggiata di Ripetta, subito dietro via Angelo Brunetti.
E poi c’è una cosa. Rokko è uno di quei posti che se non fosse stato un ristorante, sarebbe stato un negozio di vestiti. Sicuro. Del tipo d’alta moda ma senza sbandierarsi troppo. Uno di quelli che in un piccolo paese tutti avrebbero chiamato solo per nome. L’impressione ce l’hai da subito. Le sedie sono nere, hanno uno schienale enigmatico (hanno vinto un premio di design) e le vedresti nella sala riunione di Bang and Olufsen. I tavoli, molto più tradizionali, di un legno chiaro con una lastra di vetro sopra piccoli sassolini bianchi. Proprio quelli con cui ci giocheresti a Go. In fondo alla sala, la vetrata su un piccolo giardino zen.
Ma è quando li vedi per la prima volta, che te ne accorgi. Quei piccoli oggettini colorati non li diresti nemmeno nigiri. E te ne convinci. Soltanto un uomo con le mani da sarto, può averli preparati. Non è soltanto per la forma. È proprio che ogni sapore è trasparente e ha un suo perimetro preciso, chiaro. Ha un suo posto, ecco. Come un bottone. Prima il gambero crudo, lucido e pulito. Poi il salmone, che delegittima il classico sapore di sake e riesce, così, a stupirti proprio sul terreno più battuto. E infine l’unagi. Ecco, l’unagi. La selezione che ne sta a monte (tra i due tipi, comprare quello più costoso) l’altezza della carne (proprio in termini di centimetri), l’attenzione nel grado di cottura.
Da Rokko ci vai e poi ci torni. E poi ci ritorni. Perché questa cosa qua non è improvvisazione. Ma arriva da chi ha il massimo controllo dei propri gesti.
Da Rokko ci vai e poi ci torni. E impari una cosa.
Un piccolo e lillipuziano nigiri. Fallo bene, fallo meglio che puoi, impegnati tutta la vita per farlo meglio degli altri. E quando ci sarai riuscito, avrai fatto qualcosa che ha avuto un senso.