A Roma il Quinto Quarto è un’istituzione, rappresenta la storia e l’essenza della cucina popolare, oggi rivalutata e richiesta sempre di più. Tra la capitale e i tagli poco nobili c’è un rapporto profondo e identitario e di questo binomio ne abbiamo parlato con i Fratelli Mori che rendono omaggio alla cucina della tradizione romana inserendo in menu una serie di piatti dedicati al quinto quarto.
Il Quinto Quarto è il taglio meno nobile dell’animale, le frattaglie dell’animale, chiamato così perché costituiscono tutto ciò che non rientra nei quattro tagli principali (anteriori e posteriori) dell’animale. In un certo senso è il quarto nascosto, perché è costituito in gran parte dagli organi interni. E’ l’ingrediente povero che rendeva felice il popolo, escluso spesso dal poter avere la carne buona e di “lusso”.
Fegato, cuore, polmone, diaframma, animella, cervello e poi c’è lei la mitica trippa: tutte parti che nel tempo hanno dato vita alle ricette della tradizione, a dei piatti ricchi di sapore e sostanza, e perché no anche di creatività. Una cucina di “scarto” e riciclo che sottolineava ancora di più l’essenza contadina e umile, che però rispetto alle ricette dei nobili sono state tramandate e passate alla storia.
Tutte le regioni hanno la trippa: alla romana, toscana, il morzello calabrese, e se vogliamo mangiarla in versione moderna e pop scegliamo la trippa fritta. C’è la pajata a Roma e ci sta la coratella, che si fa con le interiora d’agnello in accoppiata con i carciofi (stessa cosa in Umbria), mentre in Abruzzo e al Sud Italia in genere il fegato di maiale è usato per fare le salsicce. Insomma da nord a sud della penisola guai a buttar via le interiora degli animali (pesci compresi), pietre miliari della cucina regionale e soprattutto di gran gusto.
Il Quinto Quarto da piatto povero e tipico, negli ultimi anni – bisogna ammettere – è divenuto di tendenza, forse a tratti un po’ radical chic se lo si pensa in alcuni ristoranti fine dining che lo rivestono con nuovi abiti. Se poi si pensa anche all’aumento del prezzo e anche della domanda, si capisce meglio l‘inversione di rotta. Ovviamente nessuna critica a tutto ciò, ma anzi lode a chi dalla trattoria alla cucina gourmet riesce a collocare nel proprio menu quei tagli che verrebbero normalmente scartati e fare anche così cultura di una cucina antica ed educazione alimentare.
Quinto Quarto a Roma, Osteria dei Fratelli Mori.
A Roma sono tante le trattorie vecchie e moderne che propongono il quinto quarto. Non esiste nella capitale un posto dove non si mangi la trippa, fatta con pomodoro, mentuccia e pecorino e in parallelo a questi ci sono luoghi votati a questo tipo di cucina, luoghi del gusto che fanno di questi “scarti alimentari” i principi indiscussi del loro menu, creando piatti straordinari, reinventando e rielaborando la tradizione o ripensando completamente quell’ingrediente e le sue infinite combinazioni nel piatto.
Tra le trattorie e osterie contemporanee di Roma ci sono i Fratelli Mori. Siamo in via dei Conciatori in zona Ostiense, qui da vent’anni si cucinano i piatti della tradizione romana e trippe e frattaglie di vario genere non sono escluse, anzi, da un mese a questa parte sono state promosse a pieni voti e riproposte in maniera più variegata nell’ultima versione del menu. Questione di domanda e curiosità del pubblico o un voler sposare sempre di più la cucina tipica locale, che negli ultimi periodi vive il suo momento di gloria?
Lo abbiamo chiesto proprio ai due osti e fratelli, Francesco e Alessandro, che insieme alla mamma Giuliana gestiscono questo locale, nato per realizzare il sogno nel cassetto di papà Ambrogio dopo la pensione. Un sogno che a quanto pare è stato condivio e portato al successo da tutta la famiglia. Alessandro e Francesco Mori, negli anni, hanno puntato proprio a rafforzare la loro identità ristorativa legata al territorio e alla tradizione culinaria di Roma. Seguendo questa strada, i Mori hanno deciso di introdurre in menu dei piatti dedicati al quinto quarto disponibili solo in alcuni giorni della settimana, un omaggio – come lo definiscono loro – alla cucina contadina e popolare di Roma. Ed ecco che arrivano in menu “O li ami o li odi” un’espressione ironica che evidenzia la reazione che i clienti hanno quando si parla di tutto ciò che fa parte dei tagli non “nobili” degli animali.
Due chiacchiere con i Fratelli Mori
La nostra chiacchierata inizia cercando di posizionare l’Osteria dei Fratelli Mori nel panorama delle trattorie romane a cavallo tra tradizione modernità. Un tema caldo che coinvolge molti osti romani che stanno sperimentando nuove forme di cucina popolare.
“Quando si parla di trattoria è sicuamente importante rispettare la tradizione – ci dicono i due fratelli – è la base da cui partiamo. Noi dal canto nostro cerchiamo di modernizzare, che non significa innovare. Ci sentiamo tradizionalisti, non vogliamo snaturare le ricette, ma con fedeltà le riproponiamo magari con qualche interpretazone personale sui dettagli, gli abbinamenti, l’impiattamento. Un esempio può essere la nostra versione della lingua accompagnata da verdure in agrodolce, piuttost che da sola salsa verde e poi le polpette di bollito che serviamo con una maionese al rafano. Come si intuisce sono gli elementi di contorno che variano e danno colore, non l’attore principale”.
Passiamo all’argomento clou di questo incontro, Roma e il quinto quarto e qui Francesco ride e ci fa capire subito che le cose da dire sono tante, c’è una lunga storia, antica e verace, che lega la città a questi ingredienti poveri.
“La cucina romana, che è stata da sempre povera, ha un legame profondo con il quinto quarto. E’ un po’ come dire che il Quinto Quarto è Roma. E in questa identificazone ci ritroviamo anche adesso. C’è stata, infatti, negli ultimi anni una piena rivalutazione di questi piatti, noi lo abbiamo vissuto da dentro le cucine, da quando abbiamo aperto ad oggi abbiamo riscontrato un maggiore interesse, tanta curiosità, un voler rirovare le ricette tipiche per alcuni come riferimento di cultura e spaore e per le nuove generazioni un voler scoprire il vecchio come qualcosa di totalmente nuovo. Oltre al fatto che chi si siede a tavola è sempre più preparato rispetto a ieri, tra social, trasmissioni e corsi di vario genere tutti hanno una preparazione e una curiosità fondata sia nel food che nel vino, soprattutto nel vino direi”.
Continua Alessandro: “Siamo nati come un locale di cucina della tradizone romana, questa è sempre stata la nostra strada e nel tempo abbiamo notato che maggiore identità davi al menu più trovavi riscontri positivi, fidelizzazione dei clienti. Abbiamo provato con l’inserimento graduale o saltuario di alcuni piatti tipici e da qui poi l’idea di ampliare l’offerta e proporre in menu degli appuntamenti ben definiti con il quinto quarto.
Il ritorno alla tradizione è oramai un dato certo nella ristorazione italiana, si guarda alla materia prima e alla presenza sempre più importante e ampia del territorio. Vale lo stesso per Alessandro e Francesco che sottolineano come il loro compito sia proprio quello di ricercare, di trovare la materia prima locale migliore per i loro piatti: dal prosciutto di bassiano al pecorino o guanciale delle campagna romana. “Ricerca che occupa il Lazio per la percentuale maggiore, cercando di conentenrci nel cosiddetto km0, ma che sconfina anche in altre regioni dove ci piace andare a trovare prodotti e produttori che lavorano in base alle nostre esigenze o secondo l’estro del momento”.
In questa cucina della tradizione, da cui si sviluppa l’equazione al gusto e alla convivialità passando per la materia prima i piatti tipici del quinto quarto erano già presenti: polpette di coda, trippa, lingua. A questi si aggiungono altri tre piatti simbolo nell’arco della settimana: il lunedì si può assaggiare la coratella, il giovedì la pajata e il venerdì le animelle. Tre appuntamenti settimanali quindi da segnare in agenda per gli appassionati di quinto quarto.
Dai Fratelli Mori coratella, pajata e animelle vengono preparati secondo tradizione. “La coratella o corata (le interiora di ovini e caprini) dopo un’attenta fase di pulitura, ci raccontano i due, vengono messe a cuocere in olio e cipolla. Si parte prima dai polmoni e dal cuore, le parti più tenere, e dopo si aggiungono reni, milza e fegato, le parti più tenaci. Il tutto viene aromatizzato con pepe e alloro”. Poi c’è la pajata, divenuta celebre grazie al film Il Marchese del Grillo. L’intestino tenue del bue viene sciacquato sotto acqua corrente, spellato e legato con la membrana esterna per formare degli anelli, facendo attenzione a non far fuoriuscire il liquido interno, poi cotto in padella con cipolla, sedano, pomodoro e utilizzato per condire i rigatoni. Altrettanto gustose sono le animelle, ovvero le ghiandole corrispondenti al timo, che vengono spurgate, ripulite della membrana esterna e asciugate bene per poi essere passate nella farina e soffritte. Un vero trionfo del gusto”.
Tre piatti amati molto dai due fratelli che a quanto pare hanno gusti differenti: Francesco ama di più la trippa, Alessandro propende per la Pajata e ognuno ha la sua personale classifica della tripletta dei piatti. Su una cosa sono, però, d’accordo che la cucina di tradizone è la cucina della famiglia, quella che ti fa stare bene, che crea anche la convivialità e la voglia di condivisione. E che la loro cucina è proprio così: familiare e tipica.
E il turista straniero o chi non è di Roma come vive questa esperienza? Domanda lecita per evitare di giocare solo in casa. E la risposta ci apre un panorama culturalmente intrigante: “C’è curiosità, c’è voglia di confronto specialmente da parte dell’italiano, alle volte un po’ restio, ma che vuole capire se la trippa a Roma si fa come a casa sua o no. E poi le soddisfazioni più grandi le dà chi arriva dall’estero, sicuramente curioso, pronto a provare e sperimentare e molto preparato dal punto di vista enogastronomico”.
Per quanto riguarda il resto del menu, qual è il piatto più identitario dell’Osteria dei Fratelli Mori?
“Carbonara” risponde Francesco senza pensarci un attimo. “E’ il primo piatto per cui riceviamo più complimenti e poi è il piatto più celebre di Roma. Tra i secondi ci sono le polpette di bollito e sicuramente tra i dolci “la ricotta di Ambrogio”, una ricotta di pecora lavorata con zuchero e rum, con pistacchi caramellati e arance candite. Un dolce che invento mio padre e che è diventato un caposaldo del nostro menu”.