Solitamente più un oggetto è familiare, più ha una biografia densa di aneddoti, persone, fatti, luoghi che si intrecciano all’evoluzione degli usi e dei costumi ed evolvono insieme a un pezzo di storia di un Paese. Accade così anche per il portavivande, che tutti conosciamo e abbiamo incontrato almeno una volta, se non ogni giorno. Oggetto comunissimo e indispensabile, ci accompagna per i nostri pasti fuori casa in particolare di questi tempi per colpa della crisi. Ma anche perché a lavoro si è sempre di corsa e al panino, in piedi al bar, si preferisce un cibo più sano e curato.
La storia del portavivande
L’esigenza di trasportare e conservare il cibo è antica e diffusa in tutte le culture anche ai giorni nostri: è famoso il bento giapponese, elegante scatola in legno laccato divisa in scomparti o il tiffin carrier indiano, insieme di contenitori in acciaio, tondi e schiacciati, impilati uno sull’altro.
In Italia già nel 1833 la gavetta o marmitta faceva parte del corredo militare e serviva per contenere il rancio. Era in ferro battuto e pesantissimo. E infatti venne riprogettata nel 1930 in lamiera di alluminio, leggera e senza saldature. Negli anni ’50 divenne popolare la schiscetta (termine dialettale milanese – curiosamente difficilissimo da pronunciare per un straniero – derivato da schiscià, perché il cibo veniva schiacciato nel contenitore), simbolo della fabbriche e del lavoro. Fu Renato Caimi, titolare insieme al fratello Mario della Caimi Brevetti S.p.A. ad avere l’intuizione di produrre nel 1952 “La 2000”, un contenitore a chiusura ermetica destinato a contenere il pranzo di operai, impiegati e studenti. All’epoca non c’erano mense aziendali, distributori automatici o locali di produzione e vendita di cibi per asporto, i cosiddetti take-away.
L’alternativa ecologica al pranzo fuori casa
Se un tempo portavivande e borracce erano l’unica possibilità per portare un pasto fuori casa, oggi rappresentano un’alternativa ecologica e salutare per la pausa, perché permettono la riduzione delle confezioni usa e getta e, soprattutto consentono di mangiare cibo sano, preparato nella propria cucina. Sono stati scritti libri di ricette e molti chef si sono ispirati al portavivande per creare ricette concepite per resistere alcune ore in un contenitore, essere trasportate, eventualmente riscaldate e consumate nel contenitore stesso.
Anch’io qualche volta uso il portavivande per la mia pausa di mezzogiorno. Recentemente il mio portapranzi conteneva: insalata di riso nello scomparto inferiore, roast beef con patate bollite e prezzemolo nello scomparto superiore e una macedonia di frutta fresca con fichi, albicocche, mango e fragoline di bosco nel recipiente più piccolo. Un pasto completo, ma soprattutto sano ed economico.
Il design
Colorati e multiformi, sono disponibili in vari materiali. I due più diffusi sono certamente l’acciaio e la termoplastica. Due le caratteristiche principali di questi oggetti: la capacità di conservare il cibo alla stessa temperatura – ossia l’isolamento termico – e la chiusura ermetica. Alla base della prima vi è una scoperta importante, conosciuta come “vaso di Dewar” dal nome del fisico britannico James Dewar (1842-1923) che nel 1892 intuì per primo come un vaso con due pareti separate da una cavità sottovuoto avrebbe permesso al liquido contenuto all’interno di mantenere la temperatura iniziale pià a lungo. Il primo “vaso a vuoto” fu prodotto nel 1904 da un’azienda tedesca, la Thermos GmbH, che ne diede quindi per sempre il nome che oggi conosciamo.
Sull’intuizione di Dewar si fondano ancora i portavivande e le borracce termiche contemporanee che abbinano un design moderno all’antica idea del multistrato con sottovuoto. Sono nuovi modelli leggeri e maneggevoli, economici, colorati, tecnologici e tutti con l’indispensabile chiusura ermetica. Perfetti come regalo per chi non è indifferente alle tematiche ambientali e pronti a diventare un vero e proprio oggetto di culto. Bella invenzione il portavivande!