Due fette rotonde di pane casereccio, proprio come due ruote di una carrozza, con in mezzo la marrozzella. Il tutto impanato e fritto. Da gustare ancora calda e filante. E’ la mozzarella in carrozza una vera specialità della cucina romana, e non solo. Ecco come ce la racconta Roberto Mirandola.
La adoro fin da bambino. Forse anche più del panino con il lardo, la merenda di metà pomeriggio, che solo una creatura innocente poteva ingurgitare senza poi avere la sensazione di avere seduto sullo stomaco Ernesto il cinghiale indigesto della pubblicità dell’Effervescente Brioschi®. Metteteci anche che all’epoca vivevo in un luogo in cui il numero di caseifici bissava quello dei bar, cosa assai rilevante per una zona della Pianura Padana e comprenderete l’amore, mai sopito, che mi lega a questa pietanza.
Perché in carrozza?
L’interpretazione più semplice, condivisa dalla maggioranza dei cuochi, buongustai e storici della cucina napoletana è questa: la mozzarella (rigorosamente di bufala, meglio se del giorno prima e lasciata in frigorifero in modo che risulti più soda) viene sistemata tra due fette tonde di pane casareccio come tra due ruote di una carrozza, prima di essere impanata, immersa nell’olio caldo di semi di arachidi, per poi riemergere dorata e sfrigolante. Una volta asciugata dall’olio in eccesso, va gustata subito. Ancora calda.
Per tradizione, il pane che veniva utilizzato per questa pietanza era di forma rotonda – ma dopo gli anni ’40 del secolo scorso arriva in Italia il pane in cassetta, o pancarré, che molti hanno adottato per praticità e gusto personale – e nel dialetto partenopeo ’a cascetta è anche la serpa, il sedile a due posti del cocchiere. I più fantasiosi, poi, associano i fili di mozzarella fusa che si formano quando si addensa questa specialità, alle briglie del cavallo che conduce la carrozza. Alcuni testi ricordano anche che nell’800 si usavano le carrozze per il trasporto del latte che per gli scossoni subiti durante il viaggio si cagliava facilmente e, giunto a destinazione, non era più latte ma formaggio fresco. Da qui la mozzarella in carrozza. E, sempre tra le pagine di vecchi libri di cucina locale, la mozzarella in carrozza è citata nel menu dei carrettieri di lungo corso, di quelli, cioè, che viaggiavano per le strade antiche del basso Lazio e della Campania per portare derrate fresche. Insomma, sono tanti gli aneddoti e le storielle che giustificano il fantasioso nome di questo piatto.
Nonostante la creatività di cuochi e appassionati di cucina, la ricetta della mozzarella in carrozza non ha subito nel tempo – per fortuna – variazioni sostanziali. In fondo si tratta di un semplice tramezzino di pane farcito di mozzarella, impanato e fritto, ma a Napoli lo sanno trasformare in una ghiotta specialità celebrata da autori qualificati come Mario Stefanile (1910-1977), giornalista e intellettuale napoletano che elencava tra i suoi “ozi dilettevoli”, come amava dire, anche la letteratura gastronomica. Così descrive in una pagina del suo libro Partenope in cucina uscito nel 1954: «La mozzarella fila, il pane ne sostiene il delicatissimo sapore, quell’aroma di perfetto fritto si sposa all’uovo che ha fatto un velo d’oro e, sì, tutto scivola come una carrozza dalle grandi ruote per un viale lungo il mare, tutto diventa un solo boccone ghiotto…»
Le due versioni della mozzarella in carrozza
Esistono anche due versioni – romana e veneziana – che prevedono l’utilizzo del fiordilatte (rilascia meno liquido, ma è meno saporita della mozzarella di bufala) e l’aggiunta di un’acciuga sottolio e del prosciutto cotto. Nella versione veneziana viene usato il pancarré e non il pane raffermo come a Napoli e a Roma, in più le fette vengono intinte direttamente nella pastella e non preventivamente infarinate e passate nell’uovo. Come per la versione tradizionale, oggi la mozzarella in carrozza è generalmente proposta come stuzzichino negli apertivi preserali o come ‘cicheto’ nei menu dei bàcari, le tipiche osterie veneziane.