A distanza di un anno dalla sua apertura siamo tornati da Metis per trovare una cucina concreta ed umana e il talento del giovane chef Fabio Dodèro. Vi raccontiamo com’è andata e cosa ci è piaciuto.
C’è qualcosa di prezioso tra le mani del giovane chef Fabio Dodèro, talento romano che in quel di Mezzocamino a Roma, ha dato luce e speranza al suo personale sogno di cucina creativa che prende il nome di Metis, parola greca la cui traduzione vuol dire “intelligenza pratica”. Una dichiarazione di intenti che si concretizza ai fornelli magistralmente utilizzati dal trentatreenne, che ha aperto il suo locale per proporre un’idea di ristorazione di marchesiana memoria, con quel rigore che fa leva su alcuni dei punti cardinali del maestro: gusto, qualità delle materie, ricordo e misura.
Una cucina concreta e umana che esplode al civico 24 di Piazza Enrico Martini, una zona inconsueta in cui scegliere di avviare un percorso enogastronomico di tale spessore, ma la scommessa non spaventa lo chef e il suo socio Francesco, che sul quartiere di famiglia hanno puntato tutto e lo hanno fatto – per l’appunto -, con una buona dose di “metis”. Perché in fondo “averne di metis”, significa saper sommare teoria e pratica sintetizzando la creatività e la sua applicazione in ciò che andiamo a fare. E quello che fa Dodèro, è ben più che semplice cucina: è studio, ricerca, pensiero, necessità.
La sala unica con la cucina a vista, sia dalla strada che dai tavoli, rende costante la comunicazione tra i creativi chef e i commensali, in una soluzione di continuità che parte dal piatto per poi scoppiare di gusto sotto il palato. Decorazioni e materiali mantengono la medesima connessione per cui sono state scelte pietre e marmi antichi, per non dimenticare la classicità già evocata nella scelta del nome del locale.
La nostra degustazione da Metis
Siamo stati invitati a seguire una cena degustazione riservata ai giornalisti, che Dodèro ha affrontato con la sicurezza di un professionista esperto, insieme all’amico di sempre con cui ha condiviso gli anni del liceo, Alessandro Cavina, che dal banco di scuola ha poi ritrovato al banco della cucina come suo sous chef. Un collega e compagno di viaggio con cui il padrone di casa condivide la passione per il mestiere in un rapporto simbiotico.
È la Kombucha, un fresco tè frizzante aromatizzato al mandarino e cannella – ricco di probiotici grazie alla fermentazione fatta con una colonia di batteri -, ad introdurci al viaggio nei sapori prediletti dallo Chef romano, che comincia con un tris di entrées: Prosciutto e Fichi, con il prosciutto che in realtà è una ventresca di tonno stagionato proprio alla maniera del maiale; Meringa ai Funghi Porcini, con la dolcezza e la sottigliezza della meringa pronta a implodere sotto il palato per rilasciare tutti i profumi del sottobosco d’estate, ancor meglio se fritti; poi una Chips di Semi di Chia con limone lattofermentato e calamaro crudo.
Un principio che è già tutto un programma, mentre in tavola fa la sua comparsa il pane, in due differenti versioni: il primo, di color giallo, aromatizzato alla curcuma e uvetta e poi il secondo di tipo semi integrale, dal colore più neutrale. Altro grande pregio infatti, è la capacità di panificare della brigata Metis che al pane, accompagna una crema di burro all’erba cipollina dalle capacità assuefacenti. Un solo assaggio e la perdizione è dietro l’angolo, non prima di lasciare il posto però all’iconico spaghettino freddo di marca Cavalieri servito su pomata di mandorle in purezza, citronette e gambero rosso o viola, personale omaggio di Dodèro al maestro Gualtiero Marchesi.
Altra portata regina della serata è stata senza dubbio la Chevice di pescato – fatta con ricciola di fondale -, un piatto che Dodèro realizza dopo aver conosciuto un ragazzo peruviano che la preparava da Robuchon. La ricetta parte dalla classica macerazione con un po’ di sale all’inizio e tanto lime, altro elemento sovrano nella cucina di Fabio l’acidità, maneggiata con grande sapienza ed equilibrio. Alla base si aggiunge poi la crema di latte che conferisce la parte grassa ed esalta i sapori, olio all’habanero, olio all’erba cipollina, sumak, paprika e piment d’espelette, per un tripudio di gusto dai pochi precedenti.
A seguire è stata poi la volta del Risotto, singolare nella sua esecuzione, in quanto trattasi di un riso di pasta con paprika, katsoubushi e tonno alla maniera orientale, che conferisce a queste portate visioni asiatiche sullo sfondo come nel sapore, sottolineando l’amore per la cucina orientale da parte del suo esecutore. Interessante e dal piglio tenue ma persistente nella memoria del palato, la versione della capasanta servita su miso di piselli, carote glassate e foglie di crisantemi.
Preludi di gusto che anticipano i due (forse) veri protagonisti della serata, i dessert: il primo, un delicato gelato allo zenzero servito su un crumble di cioccolato amaro, che ha fatto da apri pista all’uovo di Dodèro, una cheescake cruda alla vaniglia racchiusa nel suo guscio di cioccolato bianco, con il tuorlo interpretato da una grondante cascata di passion fruit dal colore arancione acceso. Per un piatto che è molto più che semplice immaginazione, ma che si propone ai commensali come l’impersonificazione di una visione che guarda altrove, senza mai scordare la strada da cui proviene. Da provare.