C’è chi ha paura che la tradizione venga superata e vinta dal fine dining. Un dubbio infondato, ma che spesso capita di ascoltare in certe conversazioni al ristorante. Questo editoriale è proprio dedicato a chi ha questa preoccupazione. La riflessione di questo mese è sullo stato di salute e sul fermento positivo delle trattorie, classiche o moderne, che continuano a nascere nell’ottica futuribile di proporre la tradizione.
Alle volte mi capita di chiacchierare con amici e persone poco avvezze al fine dining che, durante un confronto sulla ristorazione gourmet, tendono a porre una sorta di muro concettuale, di non accettazione di una forma di cucina per loro non totalmente comprensibile. Nulla di così strano o condannabile, è pur sempre una questione di gusto, ma quando il gusto viene superato dai preconcetti allora la situazione è differente.
In questo dialogo, che alle volte somiglia a una lotta contro i mulini a vento, la definizione che provo a dare di questa “alta” cucina – forse generica, forse più semplicistica possibile – è quella di esperienza gastronomica, che va decodificata così come facciamo con un’opera d’arte quando andiamo in un museo o quando leggiamo un libro. I messaggi, le emozioni, i rimandi percepiti e trasmessi possono essere tanti e diversi, si parte dalla trama base di semplice lettura per poi trovare tra le pieghe del racconto tanto altro che va decodificato, strato dopo strato e lo si riesce a fare solo se abbiamo alcune conoscenze e la giusta chiave di lettura.
E quando la chiave di lettura a tavola non c’è molti vengono presi da smarrimento, da una paura – infondata aggiungerei – che la cucina tradizionale abbia ceduto il passo al gourmet. Complice di questa credenza le stelle, i programmi televisivi, gli chef sempre in bella mostra con i loro piatti con nomi lunghi tre righe sul menu.
La tradizione non può morire
Ecco, la riflessione di questo editoriale nasce proprio da questa paura che mi sono sentita palesare, il timore di chi pensa che le trattorie saranno sempre meno, che la tradizione possa essere dimenticata o rivisitata così estremamente da snaturarla, di non trovare più la cucina “come a casa” in un locale. Davanti a queste affermazioni, fatte anche con preoccupazione, mi sono ritrovata a sorridere per poi rassicurare chi avevo davanti, che per fortuna convinto da quanto stessi spiegando ha tirato un sospiro di sollievo.
Affermare che la tradizione sta morendo è un po’ un ossimoro. La tradizione è sempre viva e si rinnova, si riadatta ai tempi, portando con sé il vecchio. E’ come il DNA, che di generazione in generazione in una stessa famiglia cambia, si rinnova con l’inserimento del nuovo, con delle contaminazioni genetiche, ma continua a trasportare il passato. La tradizione in cucina funziona allo stesso modo, i piatti di ieri sono attuali anche oggi, sono onnipresenti nei nostri menu (se la materia prima è disponibile), ma si adattano ai tempi, ai nuovi metodi di cottura, a nuove forme di produzione, anche a nuovi sapori decodificati e adottati.
Sicuramente la tradizione è rassicurante, perché è conosciuta, perché sappiamo interpretrarla, ma soprattuto perché non delude, soddisfa il gusto, gli occhi, il palato. Ma per fare la tradizione, riproporla o anche interpretarla bisogna conoscerla, avvicinarsi ad essa con rispetto, studiarla, farla propria e poi ridarle vita in un piatto, qualunque esso sia, da nord a sud del nostro paese.
Se scegliamo la trattoria alla cucina fine dining non stiamo scegliendo qualcosa di meno complicato. Chi la fa, soprattutto se la fa bene, ci mette lo stesso impegno, la stessa conoscenza, la stessa sapienza nella scelta di materie prime, fornitori, tecniche di cottura di uno chef creativo. Ci mette visione e anche memoria. Sicuramente in ciò che definiamo gourmet c’è un passaggio creativo in più, ma anche quello sarebbe vuoto senza quella base che dà la tradizione, fatta di abbinamenti, di risultanti di sapore. Picasso prima di “inventare” il cubismo era figurativo e concosceva molto bene l’arte figurativa, le tecniche del disegno, le regole delle proporzioni, per poi decidere di romperle e andare oltre. E anche in cucina potrebbe funzionare così, chiamo gli chef a darmi conferma o smentirmi.
Il ritorno alla tradizione secondo Slow Food
La riprova di una tradizione che non scompare me l’hanno data lo scorso mese, durante la presentazione della guida Slow Food Osteria d’Italia 2023, Paola Rocchi Soffici coordinatrice per il Lazio e Marco Bolasco collaboratore che nel loro discorso di introduzione alla cena (eravamo da Santo Palato, nuova chiocciola per Roma e il Lazio) sottolineano la tendenza di chef stellati e fine dining di guardare indietro, di aprire nuovi locali nella formula bistrot o trattorie moderne, per dare una versione della loro cucina più diretta, più genuina e meno complessa. Abbracciando in questa scelta, che non è solo gastronomica ed espressiva, ma anche e soprattutto di mercato, il ritorno a sapori confortevoli, conosciuti e per questo semplici, quei sapori che negli ultimi anni vengono meno riproposti a casa per mancanza di tempo e cambio di stili di vita e ricercati fuori dai clienti. C’è una domanda ben precisa da parte dei consumatori, che dopo la pandemia, guardano al concreto e si approcciano alla materia prima e alla tradizione con un senso di riscoperta profonda.
Obiettivo di questi posti, infatti, non è la complessità, non è la conquista di una stella, ma la schiettezza dei sapori secondo un approccio sincero, diretto, verace. Questo, va detto e sottolineato più volte, non significa che si sceglie di fare una cucina facile. Anche in questa formula la ricerca è tanta, c’è lo studio della tradizione, delle ricette di territorio e di rimando dei prodotti tipici da utilizzare, da lavorare e come trattarli. La bontà di un piatto, quella soddisfazione che ti porta a fare la scarpetta dopo l’ultimo boccone, deriva da un percorso che dai libri, dal dialogo con chi è detentore della tradizione, dal rapporto con il fornitore artigiano, passa ai fornelli. E in questo passaggio c’è un ingrediente essenziale: il rispetto. C’è l’approccio rispettoso di un cuoco, più o meno esperto, con la materia prima, con quel prodotto che non deve e non si vuole rovinare, il rispetto verso quel piatto e i valori che esso abbraccia e trasmette oggi come ieri.
Osserviamo ogni giorno a nuove aperture che vengono dal “basso”, un fenomeno diffuso che ci porta a riflettere su quale sia la direzione che sta prendendo la cucina italiana. Un fenomeno anche contagioso che coinvolge in particolar modo le nuove generazioni, quelle che prendono le redini del ristorante di famiglia e quelle che scelgono proprio questa strada, questa espressività culinaria.
Sul fronte delle nuove trattorie l’aspetto più entusiasmante non sono tanto gli spin-off dei luoghi gourmet, ma le osterie che nascono con la volontà di essere osteria, sognate, volute e progettate sui valori fondanti della trattoria: la convivialità, l’informalità e l’elemento inclusivo del territorio. Si sceglie di rivolgersi a un pubblico vario che non deve obbligatoriamente saper capire, al quale non si chiede nessuna elucubrazione mentale davanti ad un piatto, ma solo di godere del momento. La trattoria è per tutti. E i nuovi progetti nascono sposando a pieno questa filosofia, anzi meglio dire questo assioma, che a modo suo sta anche influenzando l’alta ristorazione.
Come sottolineano quelli di Slow Food: “chi lavora in trattoria lo fa con passione e punta alla qualità del risultato, partendo da una base che è proprio la conoscenza profonda della tradizione, senza la quale non avrebbero ragione di esistere. I valori fondanti di oggi erano disvalori di ieri, se prima si premiava l’esoticità dei prodotti, la loro sofisticazione, la creatività estrema, oggi c’è un ritorno alle radici. Si cerca sempre di più una materia prima prossima a noi, che sia espressione del territorio, la creativià si traduce in abbinamenti studiati, nelle tecniche di cottura, nelle consistenze che sappiano dare sapore diretti e armonia”.
Tradizione come identità
Sapienza che negli anni cresce, si alimenta, si rinnova e sperimenta anche avvicinandosi a nuove tecniche di lavorazione e cottura, che tendono a migliorare e forse anche un po’ a modernizzare un piatto, ma senza togliergli identità.
La definizione che più si adatta questi luoghi contemporanei della tradizione è quella di Trattoria Moderna. Una definizione sempre più radicata nel nostro vocabolario gastronomico e che ci ridà indietro in modo chiaro il concetto di una trattoria che si fonda sulla tradizione, ma che ha uno sguardo sempre proiettato in avanti. Una trattoria che non rimane ferma su se stessa, ma che cresce con il tempo, insieme ai suoi clienti, insieme alla sua brigata, perché fa una cucina che sa ascoltare ciò che succede intorno e gli dà forma e sapore. Ecco che da qui nel tempo vengono fuori rielaborazioni e interpretazioni personali, contaminazioni di ingredienti che rispondono a visioni allargate.
E non è solo una semplice questione di come si fa un piatto o se una carbonara ha il sapore e la consistenza giusta di una carbonara, ma diventa un percorso verso la qualità a tutto tondo. Non si può prescindere dalla ricerca costante delle materie prime e dei fornitori, fidati ed etici; non si può prescindere da una carta dei vini che racconti il territorio e lo faccia con qualità, cercando, scoprendo nuovi artigiani e abbandonando il concetto di vino della casa, ma dandosi uno stile personale; non può prescindere dalla comunione di intenti con la propria brigata, con la trasmissione del sapere; non si può prescindere dal servizio attento, curato, personale. Tutto questo viene confezionato seguendo una propria filosofia, uno stile personale che non è solo quello dato nell’impiattamento o nel sapore, ma che passa da tutte queste scelte, che sommate tra loro costruiscono la trattoria moderna.
C’è vitalità nel mercato, c’è un nuovo fermento in cucina, ci sono nuovi valori che fanno dialogare chef e clienti. E tutto questo deve essere rassicurante per chi teme che la tradizione possa scomparire: è solo una falsa paura, perché la tradizione non passa di moda, va dritta ben oltre la moda.