Nella serata di presentazione della Guida Ristoranti 2020 del Gambero Rosso, lo chef Anthony Genovese del ristorante Il Pagliaccio svela i retroscena e le difficoltà del suo lavoro.
Elogio degli chef e dei loro ristoranti. Questo lo scopo della giornata dedicata alla presentazione della guida ristoranti 2020 dello scorso 28 ottobre, e così è stato. Un evento coronatosi con una cena all’insegna dell’alta cucina, dove dieci tra gli chef che hanno raggiunto il massimo riconoscimento, le tre forchette, hanno messo in mostra il loro estro e talento, concedendosi qualche disattenzione perdonabile vista l’affluenza di circa 600 persone.
Al di là della serata, la figura e il mestiere dello chef, o dei proprietari di ristoranti in generale, sono connessi a uno status più che positivo a livello economico, ma è davvero tutto oro quel che luccica? O meglio, ci sono delle difficoltà che i ristoranti e gli chef di questo livello incontrano giorno dopo giorno? Poco prima della cena intervistando Anthony Genovese, chef e proprietario del ristorante “Il Pagliaccio” di Roma “triforchettato” con il punteggio di 92/100, è emersa un interessante verità.
Le quotidiane difficoltà
“Ci sono sempre dei problemi, oggi diventa sempre più difficile gestire un ristorante”. Lo chef esordisce con questa frase mettendo subito in chiaro che il suo non è un mestiere facile, anzi. Fortunatamente trova che a livello culturale le cose stiano migliorando rispetto ai suoi inizi romani nel 2003: “la gente è pronta, è curiosa, ha voglia di provare e assaggiare quindi non mi lamento“. Il vero problema è la gestione a livello economico. Chef Genovese confessa che un ristorante come Il Pagliaccio molto probabilmente non riuscirebbe a sopravvivere del solo lavoro svolto all’interno delle sue mura, facendo fatica ad arrivare alla fine dell’anno. A questo punto allora diventa primordiale e fondamentale la sua figura di chef al di fuori del ristorante.
Lo chef itinerante
Nonostante le tre forchette è necessario continuare a promuovere la propria attività, specialmente sui social perché la ristorazione è ormai molto mediatica. Un mondo che neanche una “guardia di mezz’età” (vecchia ci sembra un po’ esagerato) come Genovese ha potuto evitare. Non solo social però, anche molti viaggi in tutto il mondo, conferenze, consulenze e show cooking per la ricerca del cliente e per un guadagno economico diretto. Insomma “un pagliaccio da solo non basta più”, ha bisogno di un circo nel quale appoggiarsi e trovare riparo.
La necessità di innovare
A cosa è dovuto questo nuovo modo di essere chef e ristoratore? Perché un locale premiato e riconosciuto non riesce a vivere del suo solo incasso? Domandando allo chef se secondo lui ci sia un problema di comprensione e apprezzamento di concetti quali innovazione e tradizione, o influenze orientali molto presenti nella sua cucina la risposta è stata in un certo senso scocciata: “per me non esistono più questi problemi e non voglio neanche più sentire parlare di queste cose, mi sono stancato”. Per un Genovese di genitori calabresi, nato e cresciuto in Francia, vissuto a Bangkok a inizi anni 90’ mentre lavorava per L’Enoteca Pinchiorri, trapiantato stabilmente a Roma dal 2003, il tabù del diverso e del nuovo è ormai superato. “È una conseguenza naturale del tempo in cui viviamo. Dobbiamo spalancare le nostre porte ad altre culture e alle innovazioni, rimanendo però sempre noi stessi, ma senza far finta che tutto ciò non esista”.
Le scelte dei clienti
Trasmette grande speranza e fiducia nel suo lavoro quando dice che c’è una progressione, seppur molto lenta ma c’è: sempre più persone comprendono, apprezzano e ricercano questo tipo di cucina. A suo malincuore però ammette che ciò avviene molto più facilmente al nord piuttosto che al sud. Arriveremo mai al punto in cui tutti saranno pronti a capire e apprezzare questo tipo di cucina? Secondo lo chef Genovese non sarà mai così. Come detto c’è chi è felicissimo di provare questo tipo di cucina, ma c’è e ci sarà sempre una fascia a cui non ti interessa minimante, che preferisce mangiare in posti più umili e poi chiaramente c’è chi non se lo può permettere. A questo punto allora non sarà neanche mai possibile per questi ristoranti riuscire a vivere del solo lavoro nelle loro mura.
I costi dell’alta ristorazione
“L’alta ristorazione ha ormai costi elevatissimi: i prodotti, i vini, gli arredi lo staff e via dicendo”. Per questo molti ristoratori cercano di tagliare i costi nel personale o negli arrendi ad esempio, riuscendo a fare alta ristorazione concentrandosi solo sul piatto. Lo stesso fenomeno degli show cooking ha permesso ai cuochi di uscire dalle loro torri incantate e di scendere tra la gente comune. Genovese accetta e condivide in parte tutto ciò, mantenendo però un approccio aristocratico se vogliamo: “non dobbiamo andare troppo oltre queste pratiche. Il lusso è un punto di riferimento per l’Italia e io vorrei che la cucina fosse come il design, la moda e le belle macchine“.
La passione e la determinazione
Ultima domanda. “Ha mai pensato di…” e lo chef ci interrompe immediatamente dicendo “scappare?!“. Una spontanea risata ci coinvolge alleggerendo la situazione; chissà che non volesse scappare dalle domande, alquanto scomode e delicate, ma alle quali ha risposto con molta naturalezza e serenità. L’intenzione era di chiedergli se avesse mai pensato di tornare a una cucina, e quindi a una ristorazione, semplice, vicina al popolo e accessibile a tutti. Non nasconde che la fatica è molta, “anche ascoltando i miei colleghi e amici non ce la facciamo più siamo sempre in viaggio”. Non basta più stare dietro a un fornello, ricordandosi però di “prenderci il tempo di sederci e su una pagina bianca scrivere delle idee o una nuova ricetta. Le radici del nostro lavoro non le dobbiamo lasciare”. È proprio questa voglia di continuare a creare che non porta lo chef a fare il passo indietro. Per lui la cucina è passione, è svegliarsi la mattina con la voglia di fare. “Se mai un giorno mi dovesse mancare questa grinta dirò ai miei ragazzi di fermarci e farò qualcosa di diverso di più semplice, sempre fatto bene chiaramente, ma che mi permetterebbe anche di vivere di più”. L’impressione, ascoltando le parole dello chef de Il Pagliaccio, è che questo momento non sia proprio così vicino.