Tutti sanno che del maiale non si butta via niente, ma quanti penserebbero che il famoso detto sia valido anche per lo spinoso fico d’India. Ci racconta la sua storia in questo articolo Roberto Mirandola.
Tutti sanno che del maiale non si butta via niente, ma quanti penserebbero che il famoso detto sia valido anche per lo spinoso fico d’India (in Sicilia lo scrivono in una parola sola – ficodindia – come faceva Giovanni Verga)? Deve il suo nome a Cristoforo Colombo, il quale nell’ottobre del 1492 approdando a San Salvador – una delle circa 700 tra isole e isolette che costituiscono le attuali Bahamas – credette di avere scoperto dei nuovi territori delle Indie. Fu però Amerigo Vespucci nel 1501 ad accorgersi che in realtà non si trattava di terre asiatiche bensì di un nuovo continente a cui diede il proprio nome: America.
L’opuntia ficus indica, questo il nome scientifico del fico d’India, arrivò in Europa presumibilmente intorno al 1493 con il ritorno di Cristoforo Colombo in Spagna dal primo viaggio nelle Americhe. Essendo poi, una pianta in grado di crescere in zone aride e potendo resistere a temperature oltre i quaranta gradi, si è adattato bene al bacino del Mediterraneo e alle zone temperate di America, Africa, Asia e Oceania. Nel nostro Paese il 90% della produzione è concentrata in Sicilia. Il restante 10% èsuddiviso traPuglia Calabria eSardegna, mentre a livello mondiale i maggiori produttori sono Messico, Perù e Marocco.
Il frutto, di forma ovoidale ricoperto da spine, è costituito da una polpa succosa con numerosi semi legnosi. Il gusto è tipicamente dolce e tropicale. Si distinguono tre varietà che si differenziano per il colore della polpa: MUSCAREDDA (o SCIANNARINA) bianca, dal sapore delicato – SURFARINA (o NOSTRALE) gialla e saporita – SANGUIGNA rossa, dal gusto deciso. Le proprietà nutritive del fico d’India sono straordinarie perché la polpa contiene vitamina C, carotene, calcio, potassio e magnesio. Grazie al suo alto contenuto di fibre, è di aiuto per contrastare il problema della stitichezza e, grazie alla presenza di pectine e mucillagini, favorisce la guarigione dalle infiammazioni intestinali e dai danni del tessuto del fegato.
I frutti della prima fioritura, gli agostani, maturano tra agosto e settembre, mentre quelli tardivi, detti bastardoni, sono più grossi e pregiati e si trovano in autunno. La raccolta viene fatta a mano con grande cura e ben protetti per non danneggiare i frutti delicati e difendersi dalle spine. Prima di essere venduti vengono privati degli aculei con un paio di guanti, perché le spine più piccole – dette glochidi – difficilmente vengono completamente rimosse. Squisiti da gustare al naturale, vanno mangiati con forchetta e coltello: si tagliano le due estremità, poi si incide nel senso della lunghezza e si elimina la buccia. Deliziosi gli abbinamenti con formaggio, prosciutto crudo, miele e confetture. Il ficodindia trionfa anche in pasticceria, in succhi, sorbetti, granite e confetture, oltre ai tipici dolci siciliani come la mostarda e i mustazzoli, i tipici biscotti secchi prodotti nella parte nordoccidentale dell’isola. Insolite, ma altrettanto gustose, anche alcune preparazioni salate come il risotto con succo di ficodindia insaporito con formaggio pepato o il pollo saltato con pezzi di frutto, condito con pepe e chiodi di garofano.
Come detto, del fico d’India non si mangiano solo i frutti di questa pianta della famiglia delle Cactacee. Nella zona di origine, l’America Centro-Meridionale, soprattutto il Messico e in quella di elezione, si portano in tavola anche le pale giovani – le parti del fusto simili a grandi spatole, per intenderci – preparate a mo’ di cotoletta, anche se c’è chi le gusta in insalata preventivamente bollite e tagliate. Dai fiori si ricavano tisane e un miele delicatissimo, mentre dai semi un olio dalle proprietà antietà. L’unica parte inutilizzata sono le spine che, una volta levate nello stabilimento di pulitura e confezionamento, vengono bruciate.
Le parti migliori sono comunque i frutti, succosi e molto nutrienti, che un tempo i contadini siciliani mangiavano a colazione (quando ancora venivano chiamati il pane dei poveri), raccogliendoli dai bordi delle strade, dove le piante crescevano spontanee. Ancora oggi si inerpicano spontaneamente sulle “sciàre” vulcaniche, ma in molte zone del Catanese sono diffuse coltivazioni a basso impatto ambientale, senza pesticidi e con una minima irrigazione perché necessitano di pochissima acqua. È qui che nascono il Ficodindia dell’Etna e il Ficodindia di San Cono, naturalmente biologici, entrambi a Denominazione di Origine Protetta ottenuta dall’Unione Europea rispettivamente nel 2003 e nel 2012.