Il tema vino è diventando sempre di più moda, arrivando talvolta a parlarne anche troppo in alcuni casi, con linguaggi differenti che spesso risultano di tendenza e semplicistici, mal interpretati. Ciò è dovuto all’innovazione tecnologica che ci permette di dire, postare, raccontare storie intorno al vino più di quanto si accadeva in precedenza attraverso i classici media (riviste specializzate e guide), ma soprattutto ad un cambio generazionale. Il vino forse sta diventando più giovane e questo non deve essere un difetto, ma un pregio. Sempre più giovani e contemporanei sono i vignaioli, che scoprono un legame forte con la terra, che prendono in mano e con nuove visioni il lavoro in vigna dei nonni. E sempre più giovani sono i consumatori che si avvicinano curiosi al vino, per conoscerlo, ma ancora di più per berlo. Da questi due protagonisti viene fuori un approccio produttivo moderno che sa guardare al passato e poi un approccio comunicativo fresco, alternativo, che non si può sottrarre ai social network e alle nuove figure divulgatrici e dove il marketing gioca un ruolo importante.
Federico Artico, il vignaiolo 2.0
Ecco perché ci piace parlare di vino giovane o forse sarebbe meglio dire contemporaneo. E di questa generazione moderna fa parte Federico Artico, che da Lanuvio, all’interno del parco regionale dei Castelli Romani, con i suoi vini e soprattutto per le sue etichette, si sta facendo conoscere in tutto il Lazio e non solo. Lui si definisce un normale vignaiolo inserito nella contemporaneità. Un vignaiolo 2.0 che non disdegna i nuovi mezzi e i nuovi linguaggi, necessari nel panorama che si sta delineando nel settore.
“Amo il mio lavoro, sono sempre molto curioso e assetato di conoscere nuove tecniche e soluzioni anche perché sono convinto del fatto che coltivare un’ottima materia prima sia la base fondamentale per produrre un vino di qualità. Con la stessa semplicità e trasparenza comunico tutto ciò, senza troppe strategie o sovrastrutture, attraverso i canali di comunicazione che abbiamo a disposizione e che ci aiutano non poco”.
Gli inizi
Facciamo un piccolo passo indietro e facciamoci raccontare come questo ragazzo, classe 1985, si avvicina al vino e alla vigna, decidendo poi di tracciare la sua strada. “Tutto ha inizio una mattina quando mia madre mi sveglia prima del solito e mi dice che quel giorno non sarei andato a scuola perché bisognava vendemmiare. Avrò avuto più o meno 8 o 9 anni e mio padre aveva da poco acquistato un vigneto a tendone dove per arrivare ai grappoli dovevo mettermi in piedi su un secchio appoggiato a terra. Oggi quel tendone è stato spiantato per dare spazio ad una nuova vigna e da un solo ettaro siamo arrivati a 11. Ho intrapreso studi umanistici, mi sono laureato, ho lavorato nell’organizzazione di eventi di cinema, di animazione sapendo però che prima o dopo sarei ritornato a tempo pieno in vigna, mai del tutto abbandonata. Non è stata una folgorazione, un sogno da realizzare o un’opportunità per fare business; era semplicemente la mia vocazione naturale e questa cosa l’ho sempre saputa”.
Sei un produttore giovane e dal tuo modo di comunicare è chiaro che ti rivolgi a quel pubblico che con il vino hanno un approccio più immediato dettato dal piacere di bere un buon bicchiere.
“Il profilo del consumatore di vino è totalmente cambiato sia dal punto di vista anagrafico che nel modo di acquistare e bere vino. Tempo fa al tavolo vicino a cena da un cliente c’erano due ragazze di 19 anni che hanno chiesto al cameriere se avessero in carta dei vini un Cabernet Sauvignon; sono rimasto particolarmente colpito dal momento che fino ad una decina di anni fa la distinzione era tra vino bianco e rosso ed il mercato del vino in bottiglia era limitato alle grandi aziende ed ai vini più blasonati delle solite regioni. Col tempo le cose si stanno ribaltando, i corsi per diventare sommelier e degustatori sono sempre di più frequentatissimi, gli eventi sul vino spuntano come funghi, degustazioni in ogni dove e questo significa grande curiosità e voglia di scoprire nuovi territori e nuove realtà, almeno per togliersi la soddisfazione di portare alla cena dagli amici appassionati quella bottiglia di qualche varietà autoctona dimenticata e poi riscoperta dal piccolo produttore artigianale che coltiva la sua vigna su un piccolo appezzamento di un angolo sperduto della Basilicata orientale. D’altra parte c’è anche un tipo di consumatore meno “colto” che magari non riconoscerà alla cieca vitigno, regione ed annata, non avvertirà il sentore di bergamotto ma che comunque vuole bere bene. Il vero successo secondo me lo ottieni quando si trovano a cena il nerd del vino ed il consumatore più basico, stappano una tua bottiglia e piace ad entrambi; mi piace molto l’idea di un vino “pop”, un prodotto di qualità, con una forte identità ed allo stesso tempo estremamente fruibile. Un po’ tipo David Bowie”.
Chi si avvicina ai vini di Artico cosa si aspetta allora?
“Beh da quello che vedo io le aspettative sono estremamente diverse; alcuni, vedendo le etichette, si immaginano che io sia un estremista del vino aspettandosi di avere poi nel calice un prodotto al limite molto di nicchia. Altre volte mi capita di persone che si immaginano il ragazzo annoiato che si è messo a fare il vino tanto per divertimento, ma che in fondo ne sa poco e niente con in bottiglia dei vini insignificanti. Diciamo che dopo 8 vendemmie i vini sono abbastanza conosciuti, ho dei collaboratori che a livello commerciale sono molto bravi a comunicare il mio lavoro e quindi chi ne ha sentito solo parlare si ritrova a bere i vini che si era immaginato”.
E’ giunto il momento di parlare delle tue etichette. I vini di Artico sono infatti conosciuti per la loro scelta grafica-artistica, un chiaro rimando alla street art. Perché hai deciso questo tipo di immagine?
“Sì, di solito chi arriva ad assaggiare i nostri vini parte inizialmente dalla curiosità per le etichette. L’idea delle etichette mi è venuta fin a subito, ero all’inizio della mia produzione, esattamente nel 2012, quando una sera sono stato invitato ad una mostra di Diamond, uno dei più grandi street artist italiani e mi sono innamorato da subito delle sue opere che condensavano in maniera fluida un’estrema contemporanea ed immediatezza usando cifre stilistiche proprie del liberty e dell’art nouveau. Quest mix mi piacque tantissimo e mi sembrava calzante per costruire delle etichette per delle bottiglie di vino, prodotto che parte da una base estremamente tradizionale ma che attraversa e muta nelle varie epoche storiche”.
Quando produci un vino nuovo hai già in mente che tipo di etichetta avrà?
“Non c’è una regola. Ogni etichetta come ogni vino ha una storia a sé. Ad esempio per Amaltea, Ossidiana ed il Sauvignon ho deciso di usare delle opere prese dalla serie Flora e Fauna ed Araldica che avevo già visto esposte in alcune mostre di Diamond. Per quanto riguarda Leda l’idea del cigno in etichetta veniva prima ancora di scegliere il nome e decidere di produrre un rosato. Stardust è nata dall’idea di fare un omaggio a David Bowie”.
L’etichetta è un po’ la carta d’identità del vino e da qui si capisce la sua filosofia, qual è la tua?
“Il vino secondo me deve principalmente raccontarti un terroir, farti capire come una varietà di uva si adatta ad esso e la cosa più banale ma non meno importante, essere buono, fruibile e non un prodotto “da capire”, “di nicchia”, a cui magari “non siamo ancora pronti come consumatori”.
Federico, tu sei molto sensibile al tema comunicazione del vino, su cui ti sei sempre espresso in modo genuino. Secondo te oggi tenendo conto di social, influencer, foto, video, cosa si dice troppo del vino che si potrebbe fare a meno e cosa invece bisognerebbe dire di più.
“Cose di cui si potrebbe fare a meno sono tante secondo me, innanzitutto si dovrebbe evitare di cadere nella solita retorica dell’immagine in bianco e nero iper contrastata della mano dell’anziano signore che raccoglie l’opulento grappolo d’uva con la solita citazione di Mario Soldati (per carità, meravigliosa, sublime ed inimitabile… ma a questo punto anche il caro Mario si sarà stancato di sentire che “il vino è la poesia della terra”), l’immancabile foto delle varie generazioni dell’azienda ingessati con alle spalle i vigneti appena spuntati tipo famiglia Addam’s ed il calice di vino bello pieno in mezzo ai filari per ribadire, come tutti gli anni, che quella è “un’annata eccezionale”. Altra cosa di cui si sta abusando è questa deriva che vede il vino come frutto dell’apertura dei chakra del vignaiolo piuttosto che dal lavoro e dal saper fare; sicuramente è importante raccontare nella maniera più poetica possibile il proprio lavoro, però secondo me dovremmo ricordarci che fare il vino è sì molto poetico, ma nello stesso tempo è una poesia che parte da una base estremamente prosaica e (non a caso) terrena”.
Chi ti conosce sa che Federico Artico è un ragazzo che ha scelto la vigna come suo habitat naturale e che si presenta in modo trasparente, sincero e senza troppa costruzione strategica. Cosa ti piace raccontare del tuo mondo e come?
“Ad oggi secondo me chi va a “sfogliare” i social network di un’azienda che produce vino è curioso di sapere chi c’è dietro a quella bottiglia, c’è molta voglia di conoscere l’anima e l’identità di un prodotto; ho avuto questa impressione per esperienza diretta. Sui social sono sempre stato più incline a parlare di me più che strettamente di vino, cosa di cui inevitabilmente si affronta praticamente sempre dal momento che gran parte della mia vita la passo tra vigneti, enoteche e degustazioni. Lo sforzo maggiore è quello di raccontare a volte cose estremamente tecniche, che secondo me è bello ed importante divulgare, con un linguaggio comprensibile a tutti e non strettamente dedicato agli addetti ai lavori; usando parole semplice crei interesse, con i paroloni tecnici aumenti il distacco”.
Dalla tua esperienza qual è la difficoltà maggiore di oggi nel mondo del vino? Mercato, comunicazione, produzione?
“Dal punto di vista produttivo le difficoltà sono sempre dietro l’angolo, la cosa più difficile è capire che questo, specie quando hai Madre Natura come grande capo. E’ un ambito in cui devi avere uno spirito di adattamento e sempre pronto ed elastico ad incassare i colpi più forti e meno attesi. Il mercato sicuramente non è semplice da leggere ed interpretare, l’errore che spesso si fa è vedere dove hanno venduto i tuoi colleghi e seguire a ruota, mentre sarebbe più produttivo capire chi sei, cosa hai tra le mani ed a quel punto arrivi a riconoscere chi può essere l’interlocutore ottimale per impostare un bel rapporto di lavoro. Funziona come nei rapporti di coppia”.
Da quanto dici potresti essere tacciato dalle vecchie guardie del vino come una specie di rivoluzionario o dissacratore del mestiere. E questa voglia di controtendenza o semplicemente di fare qualcosa di diverso si trova anche nella tua produzione. Tu ti sei distaccato dal discorso vitigni autoctoni e hai puntato nel territorio di Lanuvio ai vitigni internazionali. Risultati?
“Seguo parallelamente la strada dell’autoctono e dell’internazionale. Produciamo Trebbiano ed in progetto c’è una malvasia puntinata, il merlot inoltre in questa zona di confine tra Lanuvio ed Aprilia è ormai considerabile come un vero e proprio autoctono. D’altra parte abbiamo anche varietà di Sauvignon e Chardonnay, secondo me sono allo stesso modo importanti, in quanto sul vitigno internazionale riesci a percepire maggiormente le caratteristiche di un territorio. Essendo varietà molto diffuse, è divertente fare i paragoni tra stesse tipologie allevate in altre parti del mondo. I risultati? Sicuramente soddisfatto, ma secondo me il positivo o negativo non dipende dalla scelta dell’autoctono o dell’internazionale, piuttosto dipende da quanto credi in quello che fai e se ci metti l’anima, ingrediente insostituibile”.