Dopo Giorgia Grillo e la pasticceria romana Nero Vaniglia (qui l’articolo), “Cucina da femmine” si sposta nella Laguna nord di Venezia, dove Chiara Pavan è al timone di Venissa, ristorante una stella Michelin che sta cambiando le regole del fine dining.
Chiara Pavan, la filosofia in cucina.
Non è stato affatto complicato introdurre a Chiara Pavan — veronese, classe ’85 e tra gli chef più promettenti del nostro paese — i pensieri che hanno fatto nascere e orientato questa rubrica, che arriva al suo ottavo capitolo. Prima che in cucina, Pavan ha completato una formazione accademica in Filosofia all’Università di Pisa, appassionandosi all’epistemologia e avendo modo di conoscere, meglio di me, il saggio del Professor Nicola Perullo (“La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria”, Carocci editore) che intercetta nella sensibilità verso la nutrizione, l’accoglienza e la riduzione del consumo di carne la specificità di un approccio femminile e materno alla tavola. È un testo importante per entrambe, e lo capisco subito dalla mia scrivania a Garbatella, mentre la immagino percorrere, un po’ trafelata, il suo orto. Un habitat e una fonte di ispirazione quotidiana che è un fazzoletto di terra sull’isola di Mazzorbo, cuore antico di quella Venezia nativa che esisteva ben prima della Serenissima, e che oggi, grazie al suo lavoro insieme al partner Francesco Brutto, è tornato a essere un faro della gastronomia italiana del futuro.
Tra ambiente e genius loci: meno carne per rispettare il luogo.
Viene in mente un’immagine sintetica che ci raccontiamo a vicenda, ridendoci un po’ su: “Ci pensi a quando si organizzano grandi grigliate, dove a domare fuoco, fiamme e braci vogliono esserci sempre i ragazzi? Mi fa molto riflettere sul significato, anche simbolico, del consumo di carne e della sua cottura così violenta”. Aggiungo che sì, è quasi sempre così anche dalle mie parti, e osservo come, in questo caso, il “fuoco” non abbia nulla a che vedere con il “focolare”. Fiamma libera, resistenza al calore e aria aperta il primo; fuoco addomesticato, cuore della casa e cottura disciplinata il secondo. Devono averci pensato a lungo anche Pavan e Brutto, che nel loro fine dining, qualche anno fa, sono stati tra i primi a eliminare del tutto la carne.
“Quando sono arrivata in laguna, circa sei anni fa, ho trovato un ambiente complicato sotto diversi punti di vista. Ho dovuto fare i conti con un’instabilità enorme. Derrate che non arrivano, l’imprevedibilità dell’acqua alta, grandi sbalzi stagionali, a volte siccità e una difficoltà concreta e generalizzata nel reperire i materiali. Avevo già una coscienza molto forte di quanto il trasporto e l’approvvigionamento comportassero molti più problemi di quanti ero pronta ad accettarne. A Venissa il mio sguardo si è fatto più acuto sui dati di fatto e sulle azioni concrete da intraprendere”. Più volte la cucina di Pavan è stata definita “ambientale”, con quella doppia accezione che tiene insieme la sfumatura ecologica e quella localistica. Come se, a ben vedere, non fosse superfluo dividere la relazione di mutuo scambio con il territorio in cui si opera da quella del rispetto, ancora più ampio, per l’ecosistema globale. “Sono stati motivi principalmente ecologici quelli che ci hanno portato e evitare la carne, anche se il nostro pensiero sull’argomento resta fluido ed elastico. Da quel momento ho iniziato a riflettere ancora più a fondo sulla ricerca delle materie prime. Ad esempio, ora siamo consapevoli di quanto la pesca sia sempre più scarsa e rischiosa, e limitiamo anche l’impiego del pescato. Allo stesso tempo, sto ragionando sulla possibilità di reintrodurre alcune specie animali come la selvaggina o, ancora più nello specifico, alcune specie invasive. Da noi ce ne sono diverse, e credo che proporle al ristorante potrebbe essere vantaggioso sotto diversi aspetti”.
Le radici dell’orto e la leadership orizzontale.
Un esempio ideale, questo, di come la ragione etica si sposi senza interruzione di continuità con la ricerca gastronomica, senza badare a dogmi, regole predefinite e consuetudini. “I commensali reagiscono molto bene alle nostre proposte, e non vengono da noi per cercare la carne, che d’altro canto non è nemmeno così centrale nella tradizione di questi luoghi. Spesso si stupiscono più per ciò che aggiungiamo, invece che togliamo”, racconta la chef, riferendosi all’universo di conserve vegetali, fermentazioni e garum vari che hanno preso egregiamente il posto delle proteine animali, senza farle rimpiangere. Chiara si occupa in prima persona dell’orto che la proprietà ha in concessione dal 2002 insieme alla tenuta, nella cui coltivazione è coinvolta anche la comunità lagunare, secondo un sistema non dissimile da quello degli orti sociali che sorgono in molte città. “A seconda dei mesi riusciamo a ottenere da qui buona parte dei vegetali che utilizziamo. Ma ci appoggiamo anche a una piccola azienda agricola in terraferma, che fornisce quel che manca. In primavera riesco a lavorare bene sul selvatico, con la raccolta delle erbe spontanee che qui è ricchissima. Il risotto alla piantaggine, ad esempio, è ormai un classico della stagione”.
Premiata come Cuoca dell’anno da L’Espresso nel 2018, Chef Internacional da Elle Spagna nel 2019, Miglior Chef Donna per la Guida Identità Golose nel 2020 e, in questo 2022, assegnataria della Stella Verde Michelin per il Venissa, la cucina di Chiara non ha bisogno di ulteriori introduzioni. Quello che mi interessa capire è quale sia la traccia che la sua personalità imprime nella vita del ristorante, specie nell’etica del lavoro e nella costruzione della squadra. “Io e Francesco abbiamo capacità diverse e complementari. Abbiamo imparato a riconoscerle e rispettarle in sei anni di lavoro gomito a gomito. Nessuno dei nostri piatti ha una ‘paternità’ o ‘maternità’ personale, ma nasce da un pensiero condiviso. Lui è intuitivo e creativo in quella modalità dirompente che va molto di moda, quando si pensa alla figura dello ‘chef star’. Ma noi, quell’impostazione un po’ televisiva e anacronistica, stiamo facendo di tutto per cambiarla. Personalmente mi interrogo molto sul concetto di leadership, che cerco di far diventare sempre più orizzontale all’interno della squadra, distribuendo le responsabilità. Così, a me spetta spesso la responsabilità di selezionare i prodotti, impostare l’andamento stagionale e magari aggiustare il tiro delle ricette, essendo io più metodica e riflessiva. Per noi è prezioso il sostegno del personale, che abbiamo la fortuna di avere numeroso — siamo sette/otto persone, cinque donne e quattro uomini. Con loro non giochiamo a fare gli chef che emergono e prevaricano, ma li integriamo il più possibile nella nostra ricerca. Abbiamo persone che lavorano qui da tre anni, una media lunghissimo per un’attività come questa, e collaboriamo con serenità”.
Il servizio smart e un’idea per il futuro secondo Chiara Pavan.
Pezzo dopo pezzo, non è solo la gestione del lavoro a essere oggetto di decostruzione, ma anche il servizio in sala, che Pavan definisce smart. “Ci facciamo molte domande su quale sia il modo migliore, e più sensato, per accogliere e servire. Non so se è banale dirlo, ma non serviamo mai prima le donne. Mi piacerebbe comunicarlo meglio, così che i commensali ci facessero più caso, perché non tutti lo intuiscono. Ho avuto cura di formare il mio personale in questo senso ‘contrario’, chiedendo loro di servire semplicemente nell’ordine che risulta più comodo. Se sul menu senza prezzi stiamo facendo molti progressi, sul servizio dei piatti siamo ancora un po’ tradizionalisti”.
Per chiudere la chiacchierata (che avrebbe potuto proseguire a lungo, ma i tempi dell’orto e del servizio, si sa, sono stringenti) Pavan riassume in modo efficace il suo pensiero sul ruolo del genere in questo ambito: “Non so se la mia è una cucina femminile. Non so nemmeno se ha senso definirla con questi parametri. È semplicemente la mia idea di gastronomia. Ma so anche — e questo è innegabile — che l’alta cucina fino a oggi è stata un mestiere soprattutto da uomini. Quando riusciremo a popolarla di una maggiore presenza femminile, alcune cose muteranno. In primo luogo nel concetto di leadership, che diventerà meno verticale e più improntato al prendersi cura: dell’ambiente come delle persone che lavorano con noi, del luogo in cui operiamo come del commensale che siede alla nostra tavola. Nel momento esatto in cui questi valori prenderanno lo spazio che meritano, allora sì, assisteremo a un cambiamento che avrà a che vedere con la sfera del femminile e del materno. Di questo sono certa”.
Photo: Letizia Cigliutti
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