Se oggi mangiare in treno è facile e anche gustoso, un tempo non era possibile. E pensare che circa settant’anni prima qualcuno in Italia aveva avuto l’intuizione di inventare quello che molti chiamano lunch box o lunch bag. E che per Roberto Mirandola rimane il cestino da viaggio.
Ogni tanto ci lamentiamo perché in Italia le cose vanno male e il nostro naturale autolesionismo ci spinge a dire che all’estero vanno meglio. Qualche volta sì, ma in molte altre situazioni pare proprio che l’incapacità sia una qualità innata negli esseri umani, ovvero quella che ci sembra stupidità sia ugualmente distribuita, come il buon senso di Cartesio, tra tutte le etnie e nazionalità, senza distinzione sociale alcuna.
Un viaggio in treno, ieri e oggi
Oggi, infatti, il treno delle 14.39 che solitamente mi porta da Brighton all’aeroporto di Gatwick in venticinque minuti, è stato improvvisamente soppresso qualche minuto prima della partenza senza fornire alcuna spiegazione ai passeggeri da parte di Southern Railway. Per fortuna è un imprevisto che tengo sempre in debito conto: il treno successivo partirà tra poco più di mezz’ora e non dovrebbe pregiudicare il mio rientro a casa con il volo delle 18.15 per Venezia. Nell’attesa, passeggiando tra i chioschi e i negozi all’inizio dei binari della stazione, mi sorge una domanda: «Si può mangiare bene in una stazione ferroviaria e, a maggior ragione, a bordo di un treno?»
Da qualche tempo si può dire che è possibile, ma diversi anni fa non era così. Nelle mie orecchie risuonano ancora le voci dei venditori di bibite e panini presenti sui binari che passavano l’agognato spuntino dal vetro del finestrino mentre il treno già si muoveva. Fino ai primi anni ’80 del secolo scorso, l’alternativa, per un pasto frugale, era il bar-buffet della stazione con cibo di scarsa qualità e oggettivamente costoso. E pensare che circa settant’anni prima qualcuno in Italia aveva avuto l’intuizione di inventare quello che molti chiamano – in maniera ridicola e soprattutto sbagliata considerato l’abuso imperante di anglicismi – lunch box o lunch bag. Per me, è e rimane, il cestino da viaggio.
Cestino da viaggio, la storia
La storia parte da molto lontano, più di un secolo fa. Nel 1913 Aldo Casali, figlio di Marsilio – titolare del ‘Buffet della Stazione” di Cesena aperto dal padre qualche decennio prima – ebbe un’intuizione geniale: vendere per 2 lire un cestino da viaggio ai passeggeri dei treni a lunga percorrenza che fermavano nella città romagnola. E che cestino! Conteneva le stesse pietanze che il buffet offriva ai suoi clienti: lasagne, cappelletti o tagliatelle, capretto, pollo e patatine, vitello arrosto, contorni, frutta locale (in stagione la pregiata pesca ‘Bella di Cesena’), una piccola bottiglia di Albana e perfino un formaggino svizzero. Anche il contenitore era di tutto rispetto: il cestino era prodotto dalle donne di casa con le trecce di paglia provenienti da Firenze e al suo interno c’era posto per un bicchiere di vetro e addirittura un contenitore in ceramica di Faenza per la pasta e un tovagliolo di FRETTE®. Aldo amava i particolari di classe e, da commerciante avveduto, sapeva come sedurre i propri clienti, ed ecco che il paniere conteneva anche: “Un fiore e un ventaglio per le signore, una sigaretta per i signori e per tutti una cartolina del ristorante, già affrancata, con la dicitura “Sono arrivato a …”.
L’intuizione di Aldo fu una vera e propria rivoluzione che offriva, a modico prezzo, un pasto caldo e di qualità. A quei tempi, durante i lunghi viaggi, si poteva scegliere tra il costoso servizio della carrozza ristorante o qualche semplice vivanda portata da casa) A riprova della bontà (in tutti i sensi) del cestino, l’idea venne presto adottata in vari Paesi. Ottimo vettore fu il famoso “Treno delle Indie” che da Londra scendeva verso il Mediterraneo, per proseguire poi verso oriente. Un treno che a Cesena si fermava solo un minuto che, abilmente sfruttato, permetteva ad Aldo di vendere fino a 400 cestini, gli ultimi con il treno già movimento. Ma Casali non si arrende, e per ottenere più tempo a suo vantaggio inventa un piccolo escamotage: appena il treno si ferma in stazione, la prima cosa che fa è regalare un cestino al macchinista. Un tacito accordo (marketing involontario allo stato puro, si direbbe oggi…) che gli regala, ogni volta, quattro minuti. Si dice che sia nato così il detto ungere le ruote perché il macchinista perdeva tempo, dopo il “dono” di Aldo, a controllare le ruote del treno con un bastone.
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Questo “puntuale contrattempo” infastidì i vertici romani delle Ferrovie dello Stato, dove per evitare il ritardo, si decise di non far più fermare il treno a Cesena, con grande disappunto dei passeggeri privati, in questo modo, della possibilità di gustare il famoso cestino di Casali. Fu grazie ad Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, che le cose cambiarono. Una sera prima di un Natale telefonò a Casali avvertendolo che Mussolini e il suo seguito sarebbero transitati per Cesena, ovviamente in treno, e che volevano trovare pronti 50 cestini. Di fronte alla replica preoccupata di Aldo che il treno non si fermava più in città, la risposta di Starace fu perentoria: «Non si preoccupi, da domani sera il treno si fermerà». E così fu: il treno tornò a fermarsi a Cesena in maniera stabile.
Ma, purtroppo (o per fortuna), il mondo si evolve in fretta e conseguentemente tutto ciò che concerne il trasporto ferroviario passeggeri. Con il passare del tempo gli eleganti e prelibati cestini da viaggio della famiglia Casali furono sostituiti da dozzinali sacchetti di carta dove, al momento dell’acquisto, era meglio non sapere che cosa ci fosse dentro. Oggi, invece, i treni ad alta velocità con le loro carrozze ristorante e i numerosi negozi che offrono cibo per asporto presenti ormai in tutte le principali stazioni hanno di fatto sancito la fine di questo antesignano del moderno take-away. Curiosamente resiste ancora nei set cinematografici – almeno nel nome (probabilmente molto meno nel contenuto e nella sostanza) – dove rappresenta da sempre l’agognato pasto di comparse e figuranti. Ma questa è un’altra storia…