Festa del Cinema di Roma. Proiezione del corto di Gabriele Muccino realizzato per la Regione Calabria con Raul Bova e Rocìo Muñoz Morales. 8 minuti di immagini patinate, cartoline di un tempo passato, stereotipi e cliché, bergamotti e fichi, muli, coppole e partite a carte. Una narrazione artefatta, qualche scorcio di mare. La montagna? Non pervenuta. Alla fine della proiezione sarebbe dovuto scattare l’applauso, ma da quando lo spot gira on line, è insorto a gran voce il furore dei calabresi che si sa sono molto orgogliosi. Ma qui non si tratta solo di orgoglio, è quasi una questione di onore verrebbe da dire.
Già da questa estate, quando sono iniziate le riprese, si parlava di questo corto promozionale della Calabria: non un documentario, non uno spot, ma qualcosa di più pensato e voluto per raccontare una regione così poco conosciuta. Costo di questa operazione 1,7 milioni di euro di soldi pubblici. Iniziativa lodevole, soprattutto in un momento in cui il turismo si gioca sul locale e c’è sempre più bisogno di far crescere questa regione, che comincia a sgomitare e far vedere il meglio di sé.
Cosa non ha funzionato
Qualcosa, però, non ha funzionato. Non ha funzionato l’idea, la forma narrativa, la recitazione, il contenuto. Tutto ciò che viene raccontato in questi 8 minuti è vecchio, trascorso, già visto. E’ la Calabria del ricordo, una Calabria ferma nel tempo, cristallizzata. Scene di vita bucolica che traggono ispirazione da vecchie cartoline sbiadite, ridipinte con i colori del sole, del grano e del mare, che scorrono su note vintage.
La “trama”
Ma vediamo la trama di questo cortometraggio: lui, Roul Bova, un po’ smunto e imbiancato, porta la sua bella Rocìo in vacanza in Calabria, nella sua terra, quella che suo nonno (non lui) lascò tanti anni fa, in cerca di lavoro e fortuna altrove. E in questo viaggio ideale, fatto in una delle regioni più ricche di bellezze naturalistiche, ciò che viene mostrato sono piazzette, trattorie con pergolati, fontane e strade di campagna che somigliano più ad un set cinematografico; uomini, vecchi e giovani, in coppola e camicia, seduti al bar a giocare a carte e in piazza, su sedie rigorosamente impagliate, a non far nulla (forse questa una traduzione poetica della disoccupazione giovanile), contadini che vanno in campagna affiancati dal fedele asino, mare verde, campi di grano già tagliato e distese infinite di clementine e bergamotti. Tutto senza una precisa localizzazione, senza identità. Immagini che potrebbero appartenere a un sud generico, che non dicono niente di più, anzi sicuramente molto di meno di questa regione che racchiude in sé storia, cultura, bellezze architettoniche dalla Magna Grecia in poi, mare, montagna, colline. Ci sono chilometri di coste e spiagge frastagliate in Calabria, c’è la Sila, l’Aspromonte e un versante del Pollino.
La cultura enogastronomica
C’è la tradizione e una forte cultura enogastronomica: ettari di vigneti sparsi per tutta la regione con i suoi vitigni autoctoni e le sue doc, i salumi, i formaggi (che non compaiono nemmeno al tavolo della trattoria), lo stoccafisso, le melanzane e chi più ne ha più ne metta. Tante sono le bontà calabresi conosciute in tutto il mondo e nemmeno menzionate, evocate, in un’epoca dove il turismo enogastronomico vince, dove l’esperienza del piatto tipico quasi è più “attrattiva e forte” di una visita ad un museo. Qui non si fa cenno alcuno alla storia – in questo caso orgogliosamente contadina che sopravvive – di ciò che i calabresi mettono in tavola. C’è, invece, l’inno alla vitamina C e alla domanda se il bergamotto si mangia, la risposta è prettamente didascalica “anche ma si usa soprattutto in profumeria”. Un frutto che sta vivendo a pieno la sua valorizzazione gastronomica diventando il protagonista della ristorazione locale, italiana e internazionale. Ma questa è un’altra storia.
I tanti, troppi, cliché
La Calabria viene riassunta così, in uno scorrere di cliché che portano alla memoria alcune scene del Padrino, con una regia che fa il verso ad alcuni film di Tornatore o agli spot di Dolce & Gabbana. E’ una narrazione che mette in luce in modo lampante la non conoscenza di una terra da parte del regista o di chi ha scritto la scenografia da un lato e dall’altro l’ignoranza da un punto di vista del marketing e della comunicazione da parte delle istituzioni, che hanno dato il “visto si giri”.
“Noi abbiamo commissionato un corto per emozionare e incuriosire chi ha voglia di visitare la Calabria. È un video per sprovincializzare e sdoganare il nostro territorio dai soliti cliché” queste sono le parole dell’assessore regionale al turismo Fausto Orsomarso, riportate sui giornali. In effetti i soliti cliché non erano tutti presenti, mancava il richiamo mafioso, per chiudere il cerchio. E il dubbio più grande e se il copy di Easyjet messo alla gogna qualche mese fa non faccia parte degli autori. Gabriele Muccino da parte sua dice: “Le critiche allo spot non mi preoccupano fa parte del gioco, dovevo solo emozionare, non potevo far vedere di più“.
A questo punto scatta una riflessione seria sull’emozione, sul turismo esperienziale e sul termine sprovincializzare e sulle annesse strategie e forme di rappresentazione. Abbiamo visto in questo spot una Calabria che non esiste, una narrazione superflua che non emoziona, che non dice nulla di nuovo o di più.
L’autentica Calabria
Chi viene in Calabria va via con gli occhi pieni di meraviglia, di bellezza e di stupore nel conoscere qualcosa di cui non aveva nemmeno l’idea, per poi tornare puntuale. “Non pensavo la Calabria fosse così bella”, sono queste le frasi che si sentono spesso e proprio da queste affermazioni nasce l’esigenza di raccontare questa terra al di fuori, per farla scoprire, per incuriosire il turista, per mettere “fame” al viaggiatore alla ricerca di bellezza.
E se sono bastati due classici stereotipi per far affermare a Rocìo “io da qui non me ne vado più” pensate avessimo raccontato meglio e di più, forse avrebbe invitato amici e parenti a trasferirsi.
La Calabria, invece, ha bisogno di un racconto diverso più moderno e contemporaneo. La gentilezza, l’amicizia e l’accoglienza dei calabresi si potrebbe raccontare i mille modi diversi, così come la tenacia, la voglia di crescere e di fare impresa. Esiste una Calabria che emoziona, che fa cultura, che produce, che crea economia e identità. C’è la Calabria de Bronzi, dei festival culturali, dei grandi marchi noti in tutta Italia e non solo, c’è la nuova generazione che non vuole andare via per poi tornare, ma vuole rimanere, radicata profondamente in questa terra con l’obiettivo di farla diventare più forte sotto tutti i punti di vista.
Quale voce dare allora alla Calabria? Forse quella dei calabresi stessi, con il loro accento, la loro vita e la loro conoscenza profonda, sarebbe stata più azzeccata. Uno storytelling che nasce da dentro, un narratore che ti spalanca le porte e ti accoglie in un viaggio bello, buono e profondo. E senza errori, perché i calabresi possono perdonare tutto, ma non la soppressata con il finocchietto. Quella no!