Cronaca di una cena nel migliore ristorante del mondo
Un paio di mesi addietro ho avuto la possibilità di cenare all’Osteria Francescana di Massimo Bottura a Modena, uno dei sancta sanctorum della ristorazione mondiale recentemente eletto per la seconda volta da THE WORLD’S 50 BEST RESTAURANTS – manifestazione annuale dalla rivista britannica Restaurant Magazine – come migliore ristorante del mondo. Confesso che quando mi è stato comunicato di accompagnare il capo redattore della guida inglese sui ristoranti per la quale collaboro per testare e conseguentemente recensire questo locale, stentavo a crederci.
Il termine “Osteria” ed ancor di più l’aggettivo “Francescana” potrebbero trarre in inganno: ai più suonerebbe come una gargotta, un locale senza pretese, per darsi alla crapula con 15-20 euro. Occorre dire che oggi questo termine non ha lo stesso significato di mezzo millennio o quarant’anni fa. L’osteria di oggi è totalmente diversa dall’osteria di un tempo, a partire dall’identità: l’osteria storica era spiccatamente popolare, quasi proletaria. Quella odierna citata da Slow Food è intimamente borghese, tant’è che le “chiocciole” della Guida alle Osterie di Slow Food corrispondono ai “Bib Gourmand” della Guida Rossa Michelin e l’OSTERIA FRANCESCANA rappresenta l’esempio più eclatante: un locale stellato dai prezzi stellari con 12 tavoli per poco meno di 30 posti. Ecco perciò il resoconto della mia esperienza.
Antefatto: prenotazione in infradito e bermuda (luglio 2018) e visita al locale con il cappotto (dicembre 2018). Si può tentare di riservare 3 mesi prima del pranzo o della cena mettendosi in lista aspettando che qualcuno disdica e, senza alcuna certezza, aspettare la fatidica chiamata.
L’atmosfera raffinata di monastico minimalismo dell’Osteria Francescana introduce con avanguardistica eleganza in un ambiente senza dubbio studiato nella sua ascetica essenzialità quasi scintoistica per porre al centro dell’attenzione i piatti. Tutto il personale di servizio eccelle senz’altro nella più meticolosa ed attenta ricerca dei particolari, con un’inappuntabile professionalità ed impeccabile cura per la qualità del servizio offerto con garbo assoluto. L’estetica innovativa delle presentazioni – una vera sinfonia di colori, proporzioni e geometrie – e la continua ricerca delle sperimentazioni certamente affascinano rendendo l’esperienza un percorso sensoriale, di scoperte cromatiche e di arte decorativa senza dubbio particolare. Al termine (o al centro) di questo percorso, s’intende collocare per l’appunto IL PIATTO, autentico protagonista del proscenio. Questo l’obiettivo.
Nondimeno, al di là di qualsiasi estasi mistico/gastronomica generata dalle complesse alchimie culinarie di Massimo Bottura, la sensazione provata è di essere caduto in trappola come i topolini di Hamelin stregati dal pifferaio magico (in questo caso rappresentato dall’illustre cuoco occhialuto modenese) e di trovarmi di fronte effettivamente a piatti che vanno al massimo dal discreto al buono. Niente che raggiunga mete eccelse o valga la pena di restare nella memoria, neppure il celebrato Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature, mentre poco più che discreta si è rivelata l’altrettanto famosa Oops! Mi è caduta la crostata al limone. Sul piano quantitativo, le porzioni “da assaggio” rendono assai arduo il tentativo di coglierne le componenti di aroma e di gusto senza il previo ricorso all’indispensabile descrizione del maître Beppe Palmieri.
Alla fine l’emozione di trovarsi in uno dei più noti ‘santuari’ mondiali dell’alta cucina deve trasformarsi in un esagerato palpito autosuggestivo per giustificare la nota acuta dell’impegnativo conto di 450 euro a persona (il menu degustazione TUTTO costituito da 12 portate e vini in abbinamento) che raggiunge i 500 euro se si comprendono l’aperitivo “gentilmente offerto” (…ma poi presente in conto a 20 euro), coperto (15 euro), acqua (10 euro) e caffè (5 euro).
Una volta usciti viene da porsi la solita domanda: «La cena valeva davvero tutti quei soldi?». Oltretutto Massimo Bottura in cucina quella sera non c’era, per cui quanto sopra descritto deriva più dalla bravura e dalla perfezione di un procedimento ormai rodato di tipo “industriale” affidato ad uno staff di professionisti – anche giapponesi – e non dalla mano dell’artista. Difficile dare una risposta, ma certamente l’esperienza meritava e andava fatta secondo me.
In conclusione, pur non discutendo la creatività, l’impegno e la notorietà che accompagnano lo chef, mi spiace ma in coscienza non me la sento di includere L’Osteria Francescana nel gotha personale della ristorazione nazionale. A differenza delle arti figurative la cucina non è chiamata soltanto ad appagare razionalmente e visivamente, ma anche e soprattutto a deliziare il palato. Nessuno me ne voglia, ma il giudizio – per quanto mi riguarda – è del tutto conseguente.